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Corso avanzato “Il Piede Piatto”: grande successo

Il 23 e 24 novembre si è svolto a Pescantina di Verona il Corso Avanzato SISPEC sul tema del “Piede Piatto”, da me organizzato e presieduto.

I numerosi partecipanti (oltre 250 iscritti!) hanno potuto esprimere le proprie opinioni e formulare domande, partecipando attivamente alle tavole rotonde e alle molteplici discussioni relative alle varie relazioni proposte e trattate da illustri colleghi del panorama nazionale ed internazionale, in un clima molto sereno e disteso.

Per me e tutti i presenti è stata un’occasione straordinaria ed un immenso onore poter ampliare e confrontare le nostre esperienze con eccellenze di questo settore come i Prof. Beat Hintermann e Nieck Van Dijk, così come Antonio Viladot, Mariano De Prado e Nicola Maffulli.

Tutte le relazioni sono state di altissimo spessore scientifico. Tra gli italiani, di particolare interesse gli interventi di Antonio Volpe, Federico Usuelli, Francesco Barca e Paolo Ronconi.

Altrettanta soddisfazione è stata espressa dalle varie aziende presenti in veste di sponsor all’evento, alle quali va il mio ringraziamento per il prezioso sostegno.

Il neuroma di Morton

Il neuroma di Morton (NM) è una patologia che colpisce il ramo nervoso digitale tra il 2° e 3° ma ancor più frequentemente tra il 3° e 4° dito del piede. Il dolore è la caratteristica principale di questa patologia. Si tratta di un dolore violento, trafittivo ed imprevedibile, non costante, localizzato in regione plantare con irradiazione verso le dita. Tipicamente si scatena con l’uso delle calzature chiuse in particolare se strette e rigide ed è ulteriormente esacerbato dalle basse temperature. Spesso il dolore è associato a bruciori e sensazione di formicolio alle dita colpite. Non di rado viene riportata la sensazione di “un qualcosa di estraneo” sotto il piede, come “un calzino arrotolato”. Il paziente è costretto ad interrompere la propria attività e togliere la calzatura massaggiandosi il piede per trovare ristoro. In genere il dolore è assente a riposo e può comparire ad intervalli anche molto distanziati. Si manifesta in piedi apparentemente “normali”, anche se capita spesso di ritrovare questa patologia in associazione con alluce valgo e dita a martello.

Il NM è una patologia ad origine multifattoriale di natura micro-traumatica in quanto viene generata dalla frequente e ripetuta azione di compressione e rilascio delle dita dei piedi all’interno della calzatura durante le attività fisico/sportive.

Diagnosi: si basa sugli inconfondibili dati anamnestici del paziente e sull’esame obiettivo in ambulatorio dove si ricerca il dolore pressorio che viene tipicamente evocato dalla compressione dello spazio inter-metatarsale ed altri tests specifici. Dal punto di vista strumentale si possono impiegare ecografia e/o risonanza magnetica nucleare pur essendo questi esami non del tutto affidabili e pertanto non indispensabili.

Terapia: non esistono ad oggi dei protocolli universalmente accettati.

Le scelte non chirurgiche come il trattamento infiltrativo mediante cortisone o alcool possono dare risultati discreti, quasi mai completi e per lo più temporanei. Oltretutto l’infiltrazione sia con cortisone che con alcool può provocare effetti collaterali negativi con possibili rischi di atrofia del cuscinetto plantare e discromie cutanee cause di danni estetici e funzionali. L’uso della guida ecografica nell’alcolizzazione pur avendone migliorato i risultati presenta comunque una non trascurabile percentuale di fallimento.

 

L’asportazione chirurgica del neuroma (neurectomia) è la pratica più diffusa.

Nel 2006 ho sviluppato una tecnica che permette l’escissione del neuroma senza sacrificare il legamento intermetatarsale profondo che è molto importante per la stabilità e l’equilibrio della distribuzione del carico dell’avampiede in particolare se in soggetti sportivi e/o con attività lavorative a lungo in piedi. Il paziente viene dimesso in giornata e cammina senza uso di stampelle. Dopo circa una settimana rimozione del bendaggio, uso di calzature sportive e graduale ripresa delle normali attività.

In conclusione quindi il neuroma di Morton è una patologia molto dolorosa ed invalidante che spesso non viene capita in quanto di non facile diagnos,i richiedendo pertanto la valutazione ed il trattamento da parte di uno specialista del settore.

La protesi di caviglia

Introduzione:

in presenza di gravi quadri di artrosi l’obiettivo della ricerca scientifica ortopedica, da sempre, ed in qualsiasi articolazione è stato ed è quello di individuare un trattamento che oltre a risolvere il dolore possa anche ripristinare il movimento.

Per quanto riguarda la caviglia e nel suo specifico la tibio-tarsica e cioè l’articolazione composta dalle ossa della gamba (tibia e perone) e il primo osso del piede (tarso o astragalo), il trattamento da sempre considerato elettivo nella storia di questa chirurgia è stato l’artrodesi e cioè la fusione/bloccaggio dell’articolazione in posizione funzionale (a circa 90°) con l’obiettivo di sconfiggere il dolore e permettere un uso del piede sufficiente a consentire una deambulazione “essenziale” per condurre una vita sociale. L’elevato tasso di complicanze di questo intervento legato a difetti di consolidazione e soprattutto ad anomalie del passo legate all’abolizione dell’articolarità con l’incremento degli stress sulle articolazioni vicine, ha spinto, sulla scia dei buoni risultati ottenuti con la sostituzione protesica di ginocchio ed anca a sperimentare negli anni settanta la sostituzione protesica della caviglia.

 

Breve storia della protesi di caviglia:

il primo modello di protesi di caviglia fu eseguito da Lord e Marotte nel 1970 e consisteva in pratica nella riproduzione di una protesi d’anca, a seguire, fino alla fine degli anni settanta furono presentati una trentina di modelli di protesi tutti proposti con cementazione dell’impianto. Tuttavia, gli scarsi risultati ottenuti uniti all’alto tasso di complicanze portarono all’abbandono di questa tecnica e a riconsiderare l’artrodesi di caviglia come soluzione chirurgica.

Alla fine degli anni ottanta vennero proposti modelli di seconda generazione, la quasi totalità dei quali non prevedeva più la cementazione. Il loro design riproduceva molto più fedelmente l’anatomia e la complessa cinematica articolare della caviglia, gli strumentari e le guide di taglio risultavano più precisi. La sopravvivenza ed i buoni risultati a distanza di questi impianti incrementarono drasticamente e ciò spinse il mondo scientifico a cercare soluzioni sempre migliori portando alla nascita agli inizi degli anni duemila di modelli di terza generazione a tre componenti con inserto in polietilene mobile e giungere ai nostri giorni con gli impianti di quarta generazione a menisco fisso o mobile, impianti modulari sempre più vicini all’anatomia originaria della caviglia e realizzati in materiali leggeri e resistenti come il titanio o il tantalio.

 

 

Indicazioni alla protesi di caviglia:

la caviglia è una struttura biomeccanicamente complessa, sottoposta a forze intense. In posizione eretta monopodalica la forza esercitata  sulla superficie articolare è pari a circa cinque volte il peso corporeo e aumenta per effetto dinamico durante la deambulazione. Tali forze è dimostrato che sono di molto superiori rispetto a quelle che agiscono sull’anca e sul ginocchio.

Generalmente la prevalenza dell’artrosi è correlata all’età. Al contrario nel caso della caviglia questa evidenza non vale.

La caviglia infatti diversamente dal ginocchio e dall’anca è un’articolazione molto congruente e se da un lato questo rappresenta un fattore protettivo nei confronti dell’artrosi primaria, dall’altro spiega come un trauma alteri facilmente questa congruenza provocando gravi alterazioni artrosiche.
Questo è il motivo per cui circa l’80% delle artrosi di caviglia è post-traumatica: fratture malleolari, di tibia, perone, astragalo, anche se guarite bene portano nel tempo alla degenerazione articolare della tibiotarsica che purtroppo molto spesso si associa ad un malallineamento dell’asse della gamba con la caviglia o a deviazioni in piattismo e degenerazioni artrosiche di una o più articolazioni vicine. Questi aspetti dovranno essere scrupolosamente valutati e corretti al fine di ottenere la migliore funzionalità e la maggiore sopravvivenza della protesi.

Ecco perché la maggior parte dei candidati alla protesi di caviglia è rappresentata da pazienti di media e giovane età per lo più in buono/discreto stato di salute generale e con esigenze funzionali importanti comprese quelle sportive (con le dovute limitazioni).

Nel restante 20% dei casi, l’artrosi di caviglia è dovuta a malattie reumatiche o altre patologie più rare come l’emofilia.

 

Inquadramento diagnostico e trattamento chirurgico:

l’artrosi di caviglia si manifesta con una sintomatologia dolorosa ingravescente, accompagnata da gonfiori, limitazione funzionale progressiva e spesso da disturbi legati al trasferimento del carico ed all’alterazione della deambulazione, arrivando ad interessare l’intero arto inferiore e la schiena nella zona lombare.

Di fondamentale importanza è l’esecuzione di radiografie in carico in due proiezioni di entrambe le caviglie (per comparazione) e radiografie con cosiddetta proiezione di Saltzman (con inclinazione del piede a 20°) per identificare la presenza di deviazioni assiali. Infine una TAC che permette di verificare la presenza di eventuali difetti e la qualità dell’osso.

I trattamenti conservativi che inizialmente possono dare qualche modesto risultato restano comunque dei palliativi ed hanno pertanto vita molto breve.

Ad oggi il trattamento di elezione è pertanto la protesi di caviglia.

Le controindicazioni a questa scelta sono rappresentate dalla presenza di una qualità ossea molto scadente, pregresse infezioni e pazienti fortemente defedati e/o con scarse esigenze funzionali; in questi casi pertanto l’indicazione chirurgica di scelta sarà l’artrodesi.

L’intervento di protesi di caviglia si esegue solitamente in anestesia spinale o generale, l’incisione chirurgica viene eseguita anteriormente alla caviglia mentre solo per alcuni particolari modelli è previsto un accesso laterale previa osteotomia del perone.

Il tempo chirurgico varia in base all’esperienza dell’operatore, alla complessità del caso ed alla necessità di abbinare altri tempi chirurgici di riallineamento e comunque difficilmente è inferiore alle due ore.

Dopo l’intervento viene applicata una valva gessata o di cartone per mantenere il piede in posizione neutra ed il paziente rimane in scarico e ricoverato per circa tre-quattro giorni. Accertate le buone condizioni cliniche locali e generali il paziente viene quindi dimesso dopo aver applicato un tutore walker o un gambaletto gessato e concesso carico con stampelle. Il carico concesso è limitato solo alle strette esigenze del paziente in casa ed è inizialmente molto leggero (cosiddetto carico sfiorante) per poi progredire gradualmente nelle settimane successive secondo un programma ben preciso che viene dato al paziente. L’uso dei tutori walker rispetto al gesso presenta numerosissimi vantaggi, primo tra tutti il poter medicare e controllare più spesso la/le ferita/e del paziente ed inoltre di consentire al paziente di aprire parzialmente il tutore per eseguire movimenti attivi della caviglia per alcuni minuti quotidianamente.

Dopo circa sei settimane dall’intervento viene rimossa l’immobilizzazione, eseguite radiografie di controllo ed il paziente inizia il programma di fisioterapia e riabilitazione dove è di fondamentale importanza la rieducazione al passo, la mobilizzazione passiva ed attiva della caviglia, lo stretching del tricipite e la rieducazione propriocettiva.

A circa due mesi dall’operazione il paziente è autosufficiente, a circa tre mesi riprende la guida dell’automobile e raggiunge la completa soddisfazione dopo circa sei-nove mesi dall’intervento.

 

Conclusioni:

oggi la sostituzione protesica della caviglia rappresenta l’indicazione di elezione per il trattamento di gravi danni articolari della tibio-tarsica.

I recenti risultati con i modelli di ultima generazione dimostrano una sopravvivenza degli impianti molto vicina a quella delle protesi di anca e ginocchio.

Pertanto, anche l’età del paziente non è più un limite all’indicazione, diversamente dalla corrente di pensiero precedente che fino alla fine degli anni novanta, sulla scia dei risultati non soddisfacenti sconsigliava tale trattamento nei giovani.

Indubbiamente il paziente candidato alla protesi deve essere comunque attentamente esaminato e selezionato e perfettamente informato del fatto che si tratta di un intervento delicato e che lo impegnerà per un periodo non inferiore ai due-tre mesi.

Il paziente deve essere sempre informato delle aspettative di sopravvivenza dell’impianto, del fatto che il movimento per quanto buono non potrà mai essere paragonato a quello della caviglia sana controlaterale e che nel tempo sarà probabile un parziale deterioramento del movimento. Deve essere altresì informato delle possibili complicanze come l’infezione, la mobilizzazione e/o la rottura dell’impianto e della eventualità di doversi sottoporre in futuro ad ulteriori interventi (specie se giovane), che potranno riguardare la sostituzione con una nuova protesi o, qualora il quadro clinico/strumentale non lo renda possibile, richiedere un’artrodesi.

Come detto, in alcuni casi è necessario abbinare dei tempi accessori per ottenere il riallineamento ed il corretto bilanciamento dell’impianto.

Per questi motivi questa chirurgia non fa parte del comune bagaglio culturale di qualsiasi chirurgo ortopedico e molto spesso nemmeno di molti chirurghi del piede e della caviglia.

Pertanto, la necessità di una lunga curva di apprendimento abbinata alla conoscenza ed ad un’esperienza chirurgica profonde in questo specifico capitolo della patologia della caviglia impongono che queste procedure vengano svolte solo da chirurghi selezionati che rispondano a questi requisiti.

La continua evoluzione degli impianti abbinata ad una sempre maggiore conoscenza della cinematica e della biomeccanica della caviglia hanno portato ad una costante crescita e miglioramento dei risultati che nel futuro prossimo giungerà a soppiantare definitivamente la scelta di un’artrodesi, così come è stato nella storia delle protesi per le articolazioni maggiori.

Protesi di ultima generazione a menisco mobile

 

Protesi di ultima generazione a menisco fisso